Autore: Roncaglia Marco
Data: settembre 2014
Una sola risposta a questa domanda è impossibile perché ne
esiste una per ogni persona che decida di fare quella scelta, ma un paio di
motivazioni, almeno all’inizio e secondo la mia esperienza, che dura da più di
trent’anni, sembrano prevalere: la condivisione di un repertorio che piace, sia
esso popolare, classico, gospel o altro ancora, e il desiderio di sperimentare
le proprie possibilità vocali.
Quello che succede poi dipende, soprattutto, dal tipo di
rapporto che nascerà tra direttore e coro, e da quelli che si creeranno tra le
persone che lo formano. Questi due aspetti interagiscono tra di loro e, col
tempo, formano il carattere del gruppo, condizionando anche le scelte
interpretative.
Per questa ragione è di fondamentale importanza adottare un
percorso che sia in grado di conciliare tutti gli aspetti coinvolti, da quelli
musicali a quelli umani.
Dopo decenni di attività corale, durante i quali ho
conosciuto e praticato innumerevoli tecniche vocali, aderito a diverse scuole
di pensiero relative al ruolo del direttore, adottato diversi atteggiamenti nei
confronti del far musica in generale, e con il coro in particolare, posso testimoniare
che il percorso tracciato dalla metodologia dell’istituto Mod.a.i. si è
rivelato il più efficace non solo a sviluppare in ciascuno una vocalità libera
da qualsiasi costrizione e fatica, ma anche a favorire la nascita di un rapporto
tra direttore e gruppo corale e, all’interno di esso, tra le persone che lo
formano, di grande armonia. Una conseguenza molto positiva relativa a questa
condizione è, per citare testualmente la testimonianza di una persona del coro
che dirigo, che “questo modo di
affrontare il canto annulla la competitività, ci sentiamo tutti
"bravi" anche se facciamo quello che riusciamo”. La competitività
non è un qualcosa di negativo in assoluto, anzi, spesso rappresenta un forte
stimolo al miglioramento di sé e del gruppo, ma diventa estremamente pericolosa,
e persino devastante, se fa nascere invidie e frustrazioni tra coloro che
cantano in un coro.
L’armonia all’interno del gruppo, nel quale comprendo anche
chi dirige, è, a mio parere, la condizione più importante per fare musica allo
stato dell’arte, ossia in un modo capace di coinvolgere ogni volta l’ascoltatore,
e sempre a prescindere dal repertorio proposto. Avere a che fare con
l’affascinante mondo della biologia e fisiologia, della sensorialità ed
emotività che ne sono parte integrante, non solo interagisce positivamente con
tutti gli aspetti dell’attività corale dal punto di vista puramente musicale,
ma crea le condizioni migliori per una condivisione veramente profonda dal
punto di vista umano.
Cantare, allora, vorrà dire ricreare ogni volta la pagina musicale,
restituendole quella dimensione vitale e umanissima che è l’unica capace di
coinvolgere chi canta e chi ascolta.